Sugli organi della categoria si legge l’opinione del presidente del consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro in materia di salario minimo. Fermo restando che rientrerebbero in questa disciplina non certo tutti i lavoratori ma solo una parte di essi e che oltre ai minimi contrattuali è prassi più o meno usuale che siano contrattati dei superminimi ad personam o trattamenti migliorativi a livello collettivo, aziendale o territoriale, le ragioni esposte non sono condivisibili perché, a parere di chi scrive, autorizzano a ritenere legittimo anche lo sfruttamento più evidente e deteriore (reso possibile da contratti collettivi sottoscritti da associazioni sindacali datoriali e dei lavoratori senza alcuna rappresentanza e, purtroppo, anche da alcuni contratti stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative) in nome della sostenibilità dei conti dell’impresa (per tanto così, allora, potremmo anche prendere in considerazione il ripristino della servitù della gleba o dello schiavismo, per esempio).
Leggere che tali ragioni rappresentano l’orientamento della categoria (di tutta la categoria), però, non è accettabile da parte di chi, come lo scrivente, di tale categoria fa parte, anche perché non risulta che sia stato chiesto alcun parere agli appartenenti alla suddetta categoria ma sia solo una adesione, acritica e atecnica, all’orientamento dell’attuale maggioranza ….
Ciò premesso, lo scrivente reputa che l’intervento legislativo che si limiti a fissare un salario minimo, quale che sia l’importo orario e la modalità di calcolo, sia insufficiente, parziale e tendenzialmente “nocivo”, in quanto potrebbe legittimare una ulteriore “fuga” dal contratto collettivo e l’affermarsi di atteggiamenti datoriali veramente deleteri che potrebbero limitarsi ad applicare il salario minimo, non applicando alcun contratto collettivo e, quindi, in sostanza operando un notevole risparmio, visto che il salario orario è solo una delle componenti del trattamento economico e normativo complessivo previsto dai contratti collettivi di lavoro.
A parere di chi scrive, l’unica soluzione è quella di dare – finalmente – attuazione all’art. 39 della Costituzione e rendere efficace erga omnes il contratto collettivo di categoria (si badi, un contratto solo per ogni categoria) sottoscritto dalle organizzazioni più rappresentative e in misura della loro effettiva rappresentanza), con ciò estendendo a tutti i lavoratori della categoria l’intero impianto contrattuale, comprensivo di tutti gli aspetti economici, normativi, di tutela e di garanzia, individuale e collettiva, previsti.
È altrettanto evidente che un tentativo di estendere, senza attuare l’art. 39 Cost., l’efficacia del contratto sottoscritto dalle associazioni comparativamente più rappresentative, non potrebbe che andare incontro ad una sicura censura della Corte Costituzionale.
Sul punto può essere interessante leggere il contributo della fondazione studi dei consulenti del lavoro che, sostanzialmente, si muove nel senso di sostenere la necessità di estendere l’efficacia dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative; manca, però, un tassello essenziale, senza il quale ogni intervento legislativo che si limiti a estendere (erga omnes, altrimenti non servirebbe a nulla) l’efficacia dei contratti collettivi sarebbe a fortissimo rischio di incostituzionalità, ossia l’attuazione dell’art. 39 Cost. A ciò, è noto, si oppone una delle tre Confederazioni Sindacali più rappresentative e in questo senso pare essere schierato anche l’attuale governo.