Il Tribunale di Torino, con sentenza n. 4410 del 19.9.2017, si è pronunciato in merito ad una controversia sorta tra un lavoratore autonomo e il proprio sostituto di imposta in merito alla tassazione di una somma erogata a titolo risarcitorio, per effetto dell’esercizio di una clausola “di gradimento”.
Il Tribunale affronta inizialmente il problema della ripartizione della giurisdizione tra giudice civile e tributario, risolvendolo a favore del primo, in quanto “soltanto le controversie che abbiano ad oggetto
direttamente i rapporti tributari (caratterizzati, per definizione, dalla presenza di un soggetto dotato di potestà impositiva in senso lato e dall’esercizio di tale potere attraverso l’emissione di un atto di imposizione) rientrano nella competenza del giudice speciale, come si evince chiaramente dal sistema delle disposizioni legislative che definiscono i limiti della giurisdizione del giudice tributario, non soltanto in base all’oggetto (d lgs n. 546 del 1992, art. 2), in forza
del quale la controversia deve avere appunto natura tributaria), ma anche in base: a) alla tipologia dei soggetti tra i quali insorge la lite, che non possono che essere gli stessi del rapporto tributario (d. lgs n. 546 del 1992, art. 10); b) all’esistenza o inesistenza di un atto che sia
espressione della potestà impositiva (d.lgs n. 546 del 1992, art. 19)”. La ragione di tale scelta è che “la speciale giurisdizione tributaria è nata per consentire al contribuente (o comunque a colui che sia gravato di obblighi tributari, anche soltanto di tipo formale) di rivolgersi ad un giudice per contrastare le “pretese – potestative del fisco” e non per risolvere controversie tra privati, relative al mero
esercizio di un diritto, anche se si tratti di un diritto fondato su una disposizione di carattere fiscale”, con la conseguenza che “la giurisdizione appartiene al giudice ordinario anche quando la controversia non riguardi l’interpretazione della norma fiscale, ma il suo adempimento …. Non importa se si tratti di adempimento spontaneo o coatto, quando l’interpretazione di una norma fiscale sia oggetto di lite tra privati, può e deve essere interpretata dal giudice ordinario, anche se, in ipotesi, la norma sia stata malamente interpretata ed applicata a monte in forza di un atto impeditivo, da cui derivi la pretesa di colui che agisce in sede civile“.
Risolto il problema della giurisdizione, il Tribunale ribadisce, esaminando una copiosa giurispridenza di legittimità, che “il principio generale [è] quello di tassazione delle sole somme conseguite in sostituzione di redditi [lucro cessante] e della non tassazione dei risarcimenti che non costituiscono reddito, ossia quelli erogati a fronte di danni emergenti“.
In particolare, il lucro cessante ha la stessa natura del reddito perduto che va a sostituire e ciò vale anche ai fini dell’eventuale assoggettamento a ritenuta d’acconto.
La norma di riferimento è l’art. 6 del DPR 917/1986 che recita:
“1. I singoli redditi sono classificati nelle seguenti categorie: a)
redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi d’impresa; f) redditi diversi. 2. I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati.”
Il Tribunale fa riferimento a una recente sentenza della Corte di Cassazione (29579/2011) ove si legge che “le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa” . Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto non tassabile il risarcimento ottenuto da un dipendente “da perdita di chance“, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa a seguito dell’ingiusta esclusione da un concorso per la progressione in carriera). La Corte cita la sentenza 11322/2003 nella quale si legge che “la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa un’entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità dell’esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale“.
Il Tribunale argomenta – riportando quanto statuito dalla sentenza della Cassazione 24988/2015 – quindi che “al fine di distinguere le ipotesi risarcitorie, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che ‘la natura meramente risarcitoria di una attribuzione pecuniaria può predicarsi solo in rispetto a somme che costituiscono reintegrazione di una utilità patrimoniale già preesistente’ e che ‘ha natura di lucro cessante soltanto la perdita derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti di talché la sua quantificazione possa avvenire sulla base del criterio liquido del calcolo degli introiti non riscossi, mentre ogni altro pregiudizio appartiene all’area del danno emergente“.
Con specifico riferimento al danno di immagine, la sentenza della Cassazione 28887/2008 ha riconosciuto il diritto al rimborso dell’Irpef ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all’immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, “trattandosi di ristoro di danno emergente relativo alla integrità psicofisica del lavoratore e alla sua reputazione professionale”.
Il Tribunale riporta anche l’orientamento dell’Agenzia delle Entrate (ancorché non costituisca fonte del diritto) che con la risoluzione del 22 aprile 2009, n. 106/E ha affermato che “non assumono rilevanza reddituale le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la perdita economica subita dal patrimonio (danno emergente)” e ha affermato che il danno all’immagine a titolo di perdita di “chance professionali” – se adeguatamente allegato e provato – “è un’entità patrimoniale,
giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione”, la cui perdita configura un “danno attuale e risarcibile” e non tassabile.
Nel caso di specie, l’esercizio della clausola di gradimento (trattavasi del subentro del figlio di un agente in un contratto di agenzia di assicurazioni) aveva comportato per l’impresa di assicurazioni che non aveva acconsentito al subentro, il pagamento di una somma a titolo risarcitorio paril al 60% delle medie delle ultime tre annualità; nonostante la commisurazione del risarcimento ad una frazione della media delle annualità provvigionali, il Tribunale ha ritenuto che il risarcimento non sostituisse redditi perduti e non fosse pertanto assoggettabile a ritenuta d’acconto.
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