La Corte Costituzionale, con una sentenza del 26 settembre u.s. (le cui motivazioni non sono ancora state pubblicate) ha sancito la illegittimità del criterio per determinare, nei contratti a tutele crescenti, gli indennizzi monetari in caso di licenziamento ingiustificato, basato sulla sola anzianità di servizio del lavoratore.

Le tutele crescenti, sulla scia della legge Fornero del 2012, hanno fortemente limitato la sanzione della reintegrazione nel posto di impiego, sostituendola – nei licenziamenti economici e in parte, in quelli disciplinari – con ristori monetari certi e crescenti, appunto, in base agli anni trascorsi dall’interessato in azienda (la ratio è stata quella di offrire un quadro di chiarezza a imprese e lavoratori, anche alla luce di pronunce giudiziarie che stabilivano indennizzi molto diversi tra loro su criteri spesso del tutto discrezionali).

La’art. 3, comma 1, del Dlgs 23 nella sua stesura originaria prevedeva un indennizzo economico che partiva da un minimo di quattro mensilità fino ad arrivare a un massimo di 24 mensilità, sulla base di un meccanismo di calcolo (a salire) di due mensilità per ogni anno di servizio. Il decreto estivo, in vigore dallo scorso 14 luglio, non ha modificato questo impianto base, limitandosi ad aumentare del 50% gli importi degli indennizzi, portando a 6 mensilità l’indennizzo minimo e a 36 mensilità, il massimo.

Su questo quadro normativo si è innestata la decisione della Consulta, chiamata in causa dal tribunale di Roma. I giudici di legittimità hanno confermato la scelta del Legislatore del 2015, quella cioè di limitare la tutela reale a casi ben precisi e limitati ed estendere quale criterio generale la “monetizzazione” della garanzia offerta al lavoratore licenziato. Sul punto, nonostante le diverse opinioni espresse in occasione della pronuncia, l’impianto delle cd. “tutele crescenti” resta invariato, così come gli indennizzi economici, che anche l’attuale governo ha mantenuto seppure aumentati.

Ad essere oggetto di censura, perché in contrasto con la Costituzione, è stato invece il criterio, ritenuto «rigido», di determinazione degli indennizzi stessi. Per i giudici di legittimità, cioè, la previsione di un’indennità crescente in funzione «della sola anzianità di servizio del lavoratore» è «contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Carta fondamentale».

Si apre, quindi, la strada al ritorno di una ampia discrezionalità dei giudici nell’individuazione dell’indennizzo monetario da corrispondere a un lavoratore illegittimamente licenziato (fatti salvi i – pochi – casi di reintegrazione), potendo variare, anche per un neoassunto, da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità, sulla base di criteri non enunciati nella norma; l’unico criterio contenuto nella norma, quello della anzianità di servizio, sopravvive ma non sarà il solo a dover essere considerato e potrà servire solo a determinare la base di partenza dell’indennizzo che potrebbe poi essere variato – non si comprende se solo in aumento o anche in diminuzione – da altri criteri che, inevitabilmente, verranno individuati dalla giurisprudenza.

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