Con la sentenza 19012 del 17 luglio 2018 la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla richiesta del certificato dei carichi pendenti rivolta al lavoratore al momento dell’assunzione, sancendone la illegittimità. Nel certificato dei carichi pendenti, infatti, sono indicati i procedimenti penali ancora in corso, ossia quelli non ancora conclusi con una sentenza di condanna (o un patteggiamento) passata in giudicato.
Infatti, il datore di lavoro può solo limitarsi, ma solo se ciò è esplicitamente previsto dalla contrattazione collettiva, a chiedere l’esibizione del certificato penale, posto che, in base al divieto di indagini pre-assuntive ex articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) e sul principio stabilito dall’articolo 27 della Costituzione (presunzione di innocenza), per valutare l’attitudine professionale del lavoratore rileva solo «l’esistenza di condanne penali passate in giudicato».
Ulteriori limiti e garanzie poste a tutela del lavoratore esistono durante la fase di esecuzione della prestazione lavorativa. Infatti, l’ordinamento considera il trattamento dei dati giudiziari con particolare attenzione e rigore; si prevede l’obbligo per il datore di lavoro di richiedere a una preventiva autorizzazione da parte del Garante per la protezione dei dati personali, che dovrà fare una compiuta valutazione sulla legittimità del trattamento.
Dovrà, in particolare, essere verificata la necessità del trattamento dei dati giudiziari, ossia l’esistenza di una idonea base giuridica che lo giustifichi (legge, normativa Ue o regolamenti) e, in particolare, che sia «indispensabile per adempiere o esigere l’adempimento di specifici obblighi o eseguire specifici compiti» (si veda il provvedimento 267 del 15 giugno 2017 del Garante per la protezione dei dati personali). In ogni caso, anche ad avvenuta autorizzazione da parte del Garante, il datore dovrà comunque trattare questi dati (sensibili) con estrema cautela, evitandone la diffusione o la conoscibilità a terzi (ivi compresi gli altri lavoratori che non siano autorizzati a trattare tali dati), fatto salvo in caso contrario il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni che lo stesso potrà provare anche ricorrendo a presunzioni (Cass. ordinanza 14242 del 4 giugno 2018).
Laddove il datore di lavoro voglia procedere ad un licenziamento per giusta causa sulla base dell’esistenza di procedimenti penali a carico del lavoratore, si dovrà necessariamente fare una analisi approfondita della singola casistica. Ove la responsabilità penale sia accertata con sentenza passata in giudicato (cui si equipara, per costante giurisprudenza, la sentenza di patteggiamento, Cass. ordinanza 10 novembre 2017) il datore può recedere provando il venir meno del vincolo fiduciario e ciò purché le condotte penalmente rilevanti messe in atto abbiano un riflesso «sia pure soltanto potenziale ma oggettivo», sulla funzionalità del rapporto «compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa» (Cassazione, 26679/2017).
In altri termini, la rilevanza dell’illecito comportamento, di per sé del tutto esterna, può estendersi all’interno del rapporto di lavoro solo se può essere messa in dubbio la corretta esecuzione della prestazione. Le condanne subite prima dell’assunzione rilevano nel corso del rapporto di lavoro e possono condurre al licenziamento quando siano divenute definitive in costanza del rapporto di lavoro, potendo pregiudicare il vincolo fiduciario tra le parti.