La Corte di Cassazione con ordinanza 29402/2018 ha ribadito un principio, già affermato in molte altre pronunce precedenti, in forza del quale il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto va intimato senza ritardo. Nel caso di specie, il licenziamento era stato intimato non nell’immediatezza del superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro (comporto) previsto dal CCNL ma a distanza di quattro mesi dal suo verificarsi.
Mentre il Tribunale aveva stabilito la legittimità del recesso, la Corte d’Appello lo annullava sulla base del fatto che il ritardo nella sua intimazione aveva determinato in capo alla lavoratrice il legittimo affidamento circa la possibilità di continuazione del rapporto, seppure a distanza di tempo dall’inizio della sua sospensione per malattia.
Investita della questione, la Corte di Cassazione ha condiviso l’interpretazione data in sede di appello, confermando che il licenziamento per superamento del periodo di comporto va adottato nella immediatezza dell’evento, in quanto un’attesa, sotto il profilo dei fatti concludenti, potrebbe ingenerare un legittimo affidamento circa l’intervenuta «stabilizzazione del rapporto» anche oltre la fine del comporto, ciò escludendo la legittimità dell’eventuale licenziamento. Il ritardo potrebbe, altresì, dimostrare la volontà negoziale del datore di lavoro, manifestata per fatti concludenti, di rinunciare – definitivamente – al suo potere di licenziare per questa specifica motivazione.
La Cassazione precisa che il criterio di tempestività deve essere commisurato «non solo ad un dato strettamente cronologico, ma con riferimento all’intero contesto di circostanze utili a valutare il contegno azienda rispetto alla volontà o meno della risoluzione».
La pronuncia in esame si allinea ad un orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato che ha più e più volte ribadito l’illegittimità del licenziamento irrogato a distanza di tempo dalla maturazione del periodo di comporto, constatato che il decorrere di un lasso temporale considerevole altro non fa se non concretizzare la volontà abdicativa del datore di lavoro (Cassazione civile, sezione lavoro, 25535/2018).
Va tuttavia segnalato che non mancano pronunce che, seppure non in piena contraddizione con il principio sopra espresso, hanno ravvisato gli estremi per una parziale inversione dell’onere della prova vigente in caso di licenziamento, rilevando che in tali ipotesi debba essere il lavoratore «a provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto» (Cassazione civile, sezione lavoro, 19400/2014).